domingo, 4 de octubre de 2015



GOMME, RETI E PLASTICA: TUTTO L'INQUINAMENTO NEI NOSTRI MARI

E ora secondo le nuove normative Ue i pescatori saranno costretti a portare a terra anche gli scarti della pesca

Le microplastiche sui fondali del Mediterraneo sono valutate nella misura di 100 milioni a chilometro quadrato 
Usare il termine inglese di marine litter (spazzatura) o francese débris (avanzo, maceria) non fa nessuna differenza. Gli esperti concordano sul fatto che in mare non ci finisce solo la plastica nelle più diverse dimensioni che, è bene ricordarlo, una volta arrivata in mare, sopravvive per millenni, entrando nella catena alimentare di pesci e uccelli. Le microplastiche - tecnicamente quelle al di sotto dei 5 millimetri - sui fondali del Mediterraneo sono valutate dagli esperti nella misura di 100 milioni a chilometro quadrato insieme alle macroplastiche, quelle che galleggiano insieme al legno, che vengono risollevate dalle onde e mandate in circolo.
shadow carouselDall’idea di un 20enne olandese parte il progetto di pulire gli oceani

Allarme partito dalla Capraia
È quasi impossibile capire da dove parta il loro viaggio, dunque è chiaro che per arginare il fenomeno servano soluzioni condivise tra i vari Paesi rivieraschi. L’Università di Siena a settembre 2014 aveva lanciato il primo allarme per i mari della Toscana e prodotto i primi dati nell’ambito di una ricerca internazionale coordinata da Cristina Fossi, eco-tossicologa del laboratorio Biomarker. In quell’occasione, l’attenzione degli organi d’informazione era stata per le microplastiche a largo della Capraia. Perché, come avevano spiegato gli esperti dell’Università di Siena, è lì che si concentra il plancton, in un’area frequentata dai cetacei che ingurgitano e trattengono nel loro organismo anche le sostanze tossiche rilasciate dalle plastiche, come gli ftalati.

Riportare a terra gli scarti della pesca
Ma dall’allarme per le isole toscane a oggi, cosa è stato fatto? Partito il progetto Plastic Buster (cacciatori di plastiche) che ha interessato però solo l’area del santuario dei cetacei, noto come santuario Pelagos, 87.500 km quadrati protetti grazie a un accordo tra il Principato di Monaco, Italia e Francia. E tutto il resto? «Come ente di ricerca nazionale», spiega il biologo marino Franco Andaloro, dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), «ci stiamo occupando dei fattori legati al marine litter che interagiscono con la pesca e sull’ambiente marino. Il guaio è», prosegue, «che nei mari italiani ci finisce di tutto, rifiuti antropici che possono essere solidi, liquidi, galleggianti, sospesi o affondati involontariamente. Mentre non c’è attenzione per il problema dello smaltimento di quanto deve essere riportato a terra dai pescatori, che con le nuove normative sono obbligati a farsi carico perfino gli scarti organici, cioè quella biomassa pescata e scartata».

L’esempio del Giappone
Si tratta di enormi quantità che nessuno sa come e dove trattare, classificata genericamente come rifiuti tossici e speciali (secondo l’articolo 15 del regolamento UE n. 1380). Con appositi regolamenti sarebbe invece urgente consentire il riciclaggio, come avviene già per esempio in Giappone dove gli scarti di pesca riescono a essere impiegati dall’industria dei mangimi o dalla farmacologia.

Le reti abbandonate
Tra i rifiuti abbandonati rientrano anche le cosiddette ghost net, le pericolosissime reti di nylon abbandonate insieme alle nasse che giacciono incastrate tra scogliere e fondali, dove finiscono intrappolati delfini e grossi pesci pelagici. Ma nella lista del litter si trovano anche altri arnesi da pesca, armi, relitti ed elettrodomestici, che vediamo solo quando la corrente li porti a spiaggiarsi.

Non solo gomme
La classifica? Al primo posto tra i rifiuti abbandonati sui fondali del basso Tirreno, compreso tra Sicilia occidentale, Sardegna e Campania, risultano i copertoni d’auto. Secondo uno studio Ispra del 2011 pubblicato su Marine Pollution Bulletin sono stati monitorati 26 siti marini compresi tra i 30 e i 300 metri di profondità a largo di Sicilia, Sardegna e Campania. Le indagini, rese possibili grazie all’ausilio di un robot sottomarino hanno mostrato per l’89% presenza di pneumatici, al secondo posto le reti da pesca abbandonate sui fondali rocciosi e in minor misura macroplastiche. Ma c’è di più: gli scienziati di Ispra e delle università delle regioni interessate hanno stabilito che il 44% di questi rifiuti impatta direttamente con la vita dei fondali: gorgonie, posidonia e altre specie che sono già duramente messe alla prova da un mare fortemente antropizzato e preso d’assalto dal turismo estivo.

FONTE: di Maria Laura Crescimanno 18 luglio 2015 (modifica il 1 settembre 2015 | 16:27) http://www.corriere.it/
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