sábado, 13 de febrero de 2016




I "NEGAZIONISTI" DELL'ALLEVAMENTO INTENSIVO

Con l’inizio di Expo Milano 2015, dedicato a “come nutrire il pianeta” il prevedibile è accaduto: stanno proliferando le attività di comunicazione celebrative dei prodotti agricoli italiani, il cosiddetto “Made in Italy”. Questo, naturalmente, vale anche per i prodotti derivanti dalla zootecnia industriale, ovvero dai circa 800 milioni di animali allevati ogni anno in Italia per produrre cibo.

Ora, Expo auspica modelli di sostenibilità. La zootecnia italiana è invece per grandissima parte a carattere intensivo, un sistema intrinsecamente insostenibile.

Per citare alcuni dati: l’allevamento intensivo è responsabile per oltre il 14% dei gas serra prodotti dall’uomo sul pianeta. In Italia il 79% delle emissioni di ammoniaca proviene dall’allevamento, così come l’80% delle emissioni di gas serra generate dall’agricoltura. Inoltre, nel nostro Paese, il 71% degli antibiotici venduti è destinato agli animali da allevamento.

L’uso di antibiotici negli allevamenti si rivela indispensabile per mantenere gli animali vivi fino alla macellazione in condizioni assolutamente irrispettose del loro benessere. Questo uso massiccio di antibiotici favorisce il fenomeno dell’antibiotico-resistenza provocando ogni anno in Italia fra i 5mila i 7mila decessi, con costi per la sanità pubblica che raggiungono i 100 milioni di euro.

La FAO ha dichiarato che: “Sostenibilità significa assicurare i diritti e il benessere degli esseri umani senza esaurire o diminuire la capacità degli ecosistemi della terra di sostenere la vita, o a danno di altri esseri viventi”. Per nutrire gli animali negli allevamenti utilizziamo 1/3 dei cereali coltivati intensivamente sul pianeta (il 50% di quelli coltivati in Italia), con gravissimi impatti sugli ecosistemi, la biodiversità e la salute delle persone .

Da un punto di vista di benessere animale e attenendosi alla definizione della FAO, come considerare sostenibili pratiche molto comuni negli allevamenti intensivi come ammassare animali in ambienti chiusi e stretti, dove a malapena possono muoversi (polli, suini), o tenerli in gabbia per tutta la loro vita (conigli, galline)? Vale la pena di porsi la stessa domanda per la scelta di usare razze selezionate per la massima “resa” e privare tutti questi animali della possibilità esprimere il benché minimo comportamento naturale. Ad esempio, la stragrande maggioranza delle vacche da latte italiane non ha visto né vedrà mai un prato su cui pascolare.

Come, quindi, fare apparire sostenibile la produzione intensiva di carne? La strada scelta dalla zootecnia intensiva, e dei suoi fautori, si articola su vari livelli: dal glissare completamente sul metodo di produzione, a dire che anche l’allevamento intensivo è sostenibile, o incredibilmente, ad arrivare a dire che l’allevamento intensivo praticamente non esiste! Così leggiamo infatti in un post, apparso pochi giorni fa sul blog di Ettore Capri sull’Huffington Post . Il prof. Capri è per sua stessa ammissione un fan della zootecnia italiana. Secondo lui: “Nonostante l’informazione mediatica ci riproponga continuamente immagini avvilenti di animali rinchiusi in spazi bui e angusti, gli allevamenti non sono sempre indoor. Il rispetto del benessere animale non esisterebbe, se agli animali fosse davvero imposto di stare sempre in spazi chiusi. Se agli animali non fosse permesso di uscire dalle stalle, si opererebbe in modo illegale”.

Si tratta di una affermazione al limite dell’incredibile, che nega una realtà incontestabile.

Naturalmente, io e l’organizzazione che rappresento, CIWF, saremmo ben felici se ciò corrispondesse al vero, perché come è noto siamo a favore di un allevamento più rispettoso del benessere animale, in cui gli animali abbiano accesso esterno e siano liberi di pascolare, e peraltro convertire in calorie quello che l’uomo non può consumare: l’erba dei prati. Ma questo tipo di allevamento rappresenta in Italia una percentuale minima, e anzi, per alcune specie come vacche, suini e conigli pressoché inesistente.

Preoccupa che affermazioni del genere trovino posto nel contesto di Expo: il prof. Capri è intervenuto ad incontri organizzati dall’industria della carne in vista di Expo. Preoccupa anche che quella che a dire degli organizzatori è destinata a rappresentare l’eredità della manifestazione, la Carta di Milano, si mantenga sul vago e non specifichi quali sono i metodi di produzione sostenibili, accomunando nei possibili sussidi a sostegno della zootecnìa sia i sistemi industriali che i piccoli produttori, a prescindere dal metodo di produzione utilizzato. Preoccupa poi che si possa persino pensare ad accoppiare i termini “intensificazione” e “sostenibile”, un inconciliabile ossimoro.

Restando perplessa e sconcertata vorrei invitare il Prof. Capri e quelli che la pensano come lui a mostrarci de visu almeno 20 allevamenti di suini in Italia non biologici in cui gli animali sono allevati al coperto con possibilità di accesso all’esterno e altrettanti in cui alle mucche è concesso di pascolare e non debbano passare il resto del loro tempo legate alla posta.

FONTE: di Annamaria Pisapia Direttrice di CIWF Italia Onlus http://www.ilfattoquotidiano.it/

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